Autotrasporto, in 6 anni chiuse 17mila aziende: sempre meno padroncini, più Spa, Consorzi e Coop
L’autotrasporto italiano sta cambiando volto: la crisi economica è stata molto pesante ed è arrivata quasi contemporaneamente l’apertura delle frontiere e l’avvento della concorrenza da parte dei vettori dell’Est.
Tutti fattori che hanno inciso profondamente: dal 2010 sono scomparse quasi 17.000 aziende (-15%). Il maggior tributo è stato pagato dalle imprese individuali (-20.000 unità), mentre sono cresciute Spa e forme aggregative come cooperative e consorzi. Un segnale di coesione che l’autotrasporto non aveva mai dato prima: il mondo dei “padroncini” si ritrova più debole, mentre aziende strutturate si fanno largo per affrontare situazioni più complesse, in cui l’Europa fa da padrona nel bene e nel male.
È quanto emerge in sintesi dal volume «Un ritratto in cifre: 100 numeri per capire l’autotrasporto» di Deborah Appolloni (ha collaborato Maria Carla Sicilia), edito da Federservice (editore di Uomini e Trasporti), presentato a Roma nell’ambito di un convegno presso il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti a cui hanno partecipato le maggiori associazioni del settore, tra cui Anita, Assotir, Confartigianato Trasporti, Fai-Conftrasporto, Fedit, Fiap e Legacoop.
Il volume parte da numeri e statistiche per tentare di delineare l’evoluzione di questo settore fondamentale per l’economia italiana. Il confronto con le aziende europee è stata forse la sfida più difficile di questi anni: i Tir con targa straniera sono sempre più presenti sulle autostrade italiane e rappresentano il 60% dei veicoli in transito dai valichi alpini. L’invasione degli autotrasportatori dell’Est ha prima eroso fette di mercato consistenti, poi ha fatto balenare diverse possibilità di “restare a galla” attraverso sistemi più o meno legali con l’obiettivo di abbassare i costi, troppo alti in Italia. Nel panorama europeo, l’autotrasporto italiano appare claudicante. In questi anni le immatricolazioni e le quote di mercato si sono spostate a Est. L’unico paese dove tra il 2008 e il 2015 le vendite di Tir hanno registrato il segno «+»è la Polonia, passata da 16.401 a 20.586 immatricolazioni. Per il resto, il dato italiano è il più depresso: la Penisola ha perso più della metà delle immatricolazioni, la Francia si è difesa con un -23%, mentre la Germania è riuscita a limitare i danni a un -9%. Per quanto riguarda i traffici (analizzando i dati Eurostat), le tonnellate/km trasportate dalle ditte bulgare sono cresciute del 164% tra il 2006 e il 2014, del 54% in Ungheria e Slovacchia, del 45% in Slovenia. A Ovest c’è tutta un’altra musica: solo la Spagna porta a casa un magro +1%, per il resto l’Italia fa registrare un – 51% come la Francia, il Belgio un – 46% e la Germania si attesta a – 40%.
Tra il 2006 e il 2015 il cabotaggio stradale internazionale è esploso. Sempre secondo Eurostat, la Germania ha visto aumentare le tonnellate trasportate in regime di cabotaggio del 186,6%, il Belgio dell’80%, la Francia del 21,5%. Il nostro paese ha toccato l’apice nel 2014 con 7,8 milioni di tonnellate, il 67,2% in più rispetto al 2006, tornando poi nel 2015 a un valore pari a quello di dieci anni fa. Le aziende dell’Est hanno scatenato in Occidente una potente battaglia a colpi di ribassi sulle tariffe, partendo da un vantaggio di base: costi di gestione molto più bassi. Stando a uno studio della CGIA di Mestre, le tariffe dei vettori italiani si aggirerebbero tra 1,10-1,20 euro a chilometro (già sottocosto), mentre i colleghi dell’Est, spesso in violazione delle norme sui tempi di giuda, delle disposizione sul cabotaggio e con costi fissi inferiori, arrivano a viaggiare a 80-90 centesimi al chilometro. Buona parte del gap competitivo si basa sul costo del lavoro: un autista assunto con contratto italiano costerebbe quasi 8 volte di più rispetto al collega con contratto bulgaro. La risposta di molte aziende è stata la delocalizzazione con avvio di nuove società all’estero, acquisizioni di aziende locali o trasformazioni in intermediari, in partnership con vettori terzisti locali.
Chi è rimasto in Italia, le sta provando tutte pur di rimanere a galla, per continuare a competere in un mercato dove i margini si restringono sempre di più. Le trovate sono diverse, quasi sempre al limite della legalità. È il caso del distacco internazionale, esterovestizione, targhe bulgare, società rumene o patentini Adr sloveni. Insomma, tutti escamotage per tagliare costi e burocrazia, ma sicuramente non per andare incontro al futuro che vede in primo piano lo sforzo per ridurre le emissioni nocive, puntando su carburanti alternativi come Gnl o biocarburanti, su veicoli con guida assistita o autonoma che richiedono un up-grade professionale da parte delle aziende e degli autisti.
Il mondo sta virando verso il commercio elettronico che richiede un vettore sempre più aperto alle sperimentazioni e alla specializzazione (il Vettore 2.0), ma anche verso la digitalizzazione dei processi e l’industria 4.0. L’intermodalità, in parte già nel presente, sarà uno degli elementi più importanti per il trasporto futuro lasciando alla gomma un ruolo centrale dovuto all’insostituibile flessibilità che la caratterizza.
fonte: Uomini e Trasporti
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