Produttività, le aziende italiane che funzionano appartengono alle multinazionali
Altro che svendita: le multinazionali che investono nel nostro Paese riescono a portare più crescita di quanto non sappiano fare le aziende a conduzione italiana. È un mito anche quello della delocalizzazione per abbattere i costi: le spese sono uguali, è il rendimento che è maggiore.
Il presidente eletto Donald Trump minaccia, o promette, una tassa del 35% per le merci importate da imprese americane che hanno delocalizzato all’estero. Il TTIP nel frattempo è morto nella culla, orfano, senza che quasi nessuno più provi a difenderlo o a rivendicarne la primogenitura.
Lo spettro di un neo-protezionismo si aggira per l’Occidente impaurito dalla globalizzazione e dalle economie emergenti. In Italia poi la paura è doppia. Non si tratta solo delle aziende italiane che portano gli impianti all’estero, ma di quelle straniere che acquisiscono quelle del nostro Paese, marchi storici la cui proprietà vola in Francia, Usa, o anche in Cina. Gli esempi sono tanti, da Parmalat acquisita da Lactalis, a Italcementi comprata da HeidelbergCement, da Telecom controllata da poco da Vivendi a tutte le griffe del lusso, Pomellato, Gucci, Bottega Veneta, passati al colosso francese Lvmh.
Eppure se guardiamo ai dati pubblicati dall’ISTAT sulle aziende italiane a controllo estero la realtà appare un po’ diversa. Queste imprese hanno un numero medio di addetti decisamente superiore a quello delle aziende a controllo italiano, 90,4 contro 3,4, mentre si superano i 127 nell’industria, con record di divario nel food e nei servizi legati alla ristorazione e all’alloggio.
Non solo: gli investimenti per addetto sono più del doppio nelle aziende a controllo straniero, così come la redditività, 37,3% contro il 19,2%, e il valore aggiunto. La spesa in ricerca e sviluppo è quadrupla, 2400€ euro per dipendente contro 600€.
Certo, si potrà obiettare che queste aziende italiane rilevate da gruppi stranieri siano normalmente piuttosto grandi, poco paragonabili al cosmo di piccole e micro-imprese che popolano il nostro Paese. In realtà anche il paragone con imprese autoctone di dimensioni simili, ovvero quelle che l’ISTAT definisce grandi, è significativo. A fronte di un valore aggiunto inferiore in valore assoluto, in realtà quello per addetto è superiore in quelle con proprietà estera, 69.310€ per addetto contro i 57.950€ di quelle a controllo italiano.
Si dirà, certo, gli stranieri si prendono le aziende migliori e poi le smantellano e se le portano all’estero. A parte il fatto che prima di una vendita i gruppi italiani hanno quasi sempre attraversato periodi di crisi che hanno evidenziato l’incapacità di saper competere a livello internazionale – e che queste acquisizioni hanno rappresentato dei veri e propri salvataggi – in realtà se osserviamo cosa è accaduto a queste imprese negli anni più cupi della crisi vediamo che nonostante tutto, mentre la struttura produttiva italiana crollava, gli indicatori di queste imprese andavano meglio della media, tanto che la loro quota di addetti, di fatturato, di valore aggiunto sul totale nazionale aumentava, in particolare nei servizi, dove il valore aggiunto delle aziende a controllo estero dal 2004 al 2014 è passato dal 9,4% al 13,95%
Chiaramente su queste percentuali influisce il declino dell’industria italiana, ma si intravede anche un ruolo di freno a questo stesso declino operato da imprese che portano un pezzo di Europa o di mondo anglosassone nel panorama stanco dei nostri distretti, portano quella produttività di cui abbiamo disperatamente bisogno. Si invocano molto gli investimenti esteri in Italia, ma deve essere chiaro che molto spesso in questo consistono, nell’acquisire quote di maggioranza di aziende italiane, siano esse il Milan o un’industria alimentare.
È una contraddizione sperare in tali investimenti e poi protestare se un’impresa nostrana passa di mano. Rinunciare al ruolo dei grandi gruppi esteri, chiudersi e fare protezionismo non vorrebbe dire solo rinunciare a un apporto di produttività, ma anche ignorare che si metterebbero in difficoltà le imprese italiane che invece acquisiscono all’estero, e che sono tante, anche se se ne parla poco. Dal 2004 al 2014 il fatturato delle aziende straniere a partecipazione italiana è passato da 389 a 531 miliardi, gli addetti da 1,4 a 1,8 milioni. Perlomeno nell’industria, per quanto sia possibile fare paragoni, l’importanza di queste imprese italiane all’estero è maggiore di quelle straniere in Italia, sia a livello di addetti che di numero assoluto che di fatturato, che è il 25,07% del totale italiano contro il 19,49%.
La vitalità all’estero del sistema produttivo italiano è spesso ignorata o vituperata parlando di delocalizzazioni fatte per competere solo sul costo, per spostare produzioni laddove il lavoro costa meno. Eppure anche in questo caso i dati smentiscono molti di questi pregiudizi: più di metà di questi investimenti all’estero di gruppi italiani avviene in Paesi dove il costo del lavoro è uguale o maggiore al nostro, gli Stati Uniti, la Germania, la Spagna, la Francia, il Regno Unito ecc. Sono luoghi dove il costo del lavoro pro-capite va per esempio dai 42.500€ della Spagna, appunto, ai 54.300€ della Germania ai 57.700€ degli USA.
E non si tratta di investimenti concentrati in pochi settori, ma si superano i 10 miliardi di fatturato sia nella fabbricazione di auto che nei servizi finanziari e assicurativi, nell’estrazione di minerali, nell’industria alimentare o, infine, nella metallurgia.
Il punto è che non possiamo lamentarci del declino e poi volerci chiudere, un mondo in cui l’Italia non spalanca le porte alle imprese straniere e non cerca di investire a sua volta all’estero è un mondo in cui rimaniamo soli con la nostra ridicola disponibilità di capitale di rischio, con un modello glorioso ma invecchiato in cui la produttività sembra essere stata dimenticata, soli con un orgoglio rabbioso che sa più di paura che di rivalsa. È un modello che l’Italia nei suoi secoli di storia ha sempre rifiutato, fin da quando i nostri mercanti giravano l’Europa vendendo tessuti pregiati o lettere di credito, sempre tranne che negli anni ‘30 dei nazionalismi e dell’autarchia. Che non ci portarono bene.
fonte: Gianni Balduzzi – Linkiesta.it
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